Dietro le quinte di un'intervista

"Andiamo in campo per vincere", "ho sempre sognato di giocare per questo club", "domenica daremo tutto" o "non ci sono avversari facili". Ah dimenticavo: "rispetto di tutti, paura di nessuno". Un classico che non si poteva omettere. 

Si potrebbe andare avanti per centinaia di righe snocciolando la lista di banalità e di frasi fatte che gli atleti, un po' di tutti gli sport, regalano quotidianamente al giornalista di turno. Aria fritta, buona soltanto per riempire di ovvietà qualche riga di giornale o qualche minuto in televisione.

Frasi che non resteranno celebri, che non faranno discutere nessuno il giorno dopo nemmeno al bar. Semplicemente buttate lì, un po' per obbligo e un po' per abitudine. E i giornalisti che fanno? Semplicemente buon viso a cattivo gioco. A volte per convenienza, altre per pigrizia.

Non è sempre facile presentarsi davanti a uno sportivo e fargli le domande "giuste". Già, ma quali sono le domande giuste? Dovrebbero essere quelle che il pubblico da casa o il lettore si aspetta. Il più delle volte, inutile negarlo, sono quelle più scomode. 

Ecco che allora la convivenza, ancorché breve, tra intervistatore e intervistato, può diventare difficile e giocarsi su un piano di estrema soggettività. Entrano in gioco la sensibilità e il pudore di ognuno, aspetti che si annidano nella profondità dell'essere umano. Difficile da sondare e da capire. 

Il giornalista sa di dover tirar fuori qualcosa di succoso dalla sua "chiacchierata", ma dall'altra parte sa che non può nemmeno tirar troppo la croda. Insomma, è un esercizio di estrema acrobazia. Spesso il filo è molto fine. Finissimo. Pungere ma non troppo, a volte dover "far male" ma non in maniera letale. Affinché lo sportivo la prossima volta sia ancora disponibile. È questo il segreto. 

Non facile, per niente scontato. 

E lo sportivo? Ci sono quelli che hanno volentieri rapporti con la stampa e si sentono a proprio agio davanti a un microfono. Non è soltanto questione di età o esperienza, è proprio una predisposizione innata. C'è chi si fida, chi ama confidarsi e parlare, e chi invece si nasconderebbe nello spogliatoio fino a notte inoltrata pur di non dover uscire e trovarsi di fronte penna e taccuino del redattore di turno. Gli sportivi, apparentemente forti e rocciosi, hanno ovviamente caratteri molto diversi tra di loro. C'è il timido, l'introverso e il malfidente. Sì, c'è anche lui. Quello che "odia" la stampa, perché i giornalisti sono tutti brutti e cattivi.
Sono tutti da rispettare e in fondo, da capire. La loro professione, ancorché spesso ben remunerata, comporta una dose di pressione e responsabilità non sempre facili da intuire per chi sta al di fuori. E loro, molto spesso, sono dei giovani ragazzi con ancora poca esperienza della vita.
Per venire incontro ai giocatori e dar loro una mano nella gestione della comunicazione, che ha ormai assunto un'importanza vitale, le società hanno apparecchiato eserciti di addetti stampa per supervisionare tutto ciò che li riguarda su giornali, televisioni e siti internet. Un lavoro faticoso e costoso, ma che ritengono necessario per evitare il sorgere dei tanto
temuti "casi". 

E proprio la nascita di una moltitudine di siti ha complicato la vita dei club, che faticano a
tenere sotto controllo tutto ciò che viene detto e commentato, ergendosi a volte a sentinelle
nevrasteniche. Non mancano i contrasti tra club e giornalisti, rei quest'ultimi di una critica a volte troppo aspra. 

Alcuni sono finiti addirittura davanti al pretore. Raro ma non impossibile. 

Così com'è impossibile stabilire chi abbia ragione nelle varie dispute giornalistiche: spesso,  come accade nella vita, la verità sta nel mezzo. Una cosa è certa, a differenza di quello che può credere qualcuno, il giornalista non è un tifoso. Mi spiego meglio. Il "vero" giornalista può avere delle preferenze, perché siamo stati tutti bambini e abbiamo tifato per qualche squadra. È normale che sia così. Sarebbe strano il contrario. Ma questo non vuol dire essere faziosi o far male il proprio mestiere.

Dopo tanti anni nel "giro" le simpatie di una vita si smorzano, si comincia a pensare al bene del proprio lavoro e della propria carriera e semmai, entrano in gioco i rapporti personali. Anche se non appartengono al club del tuo cuore. 

Ci si affeziona a giocatori o dirigenti, si è contenti per i loro successi, si stabilisce con loro una connessione speciale. Si possono addirittura costruire delle amicizie, che naturalmente non devono inficiare l'imparzialità di giudizio, che resta uno dei capisaldi del buon giornalista.

È così che si cresce, che si acquisisce una credibilità verso il pubblico. O perlomeno verso la maggioranza di esso. Ci sarà sempre qualcuno che penserà il contrario e non crederà nella tua buona fede, ma in quel caso non ci sarà nulla da fare. Ci sono persone impossibili da far ricredere. Ma in fondo è normale che sia così. Per concludere: il giornalista ha bisogno delle società, così come le società hanno bisogno dei giornalisti.

E il loro rapporto, tra amore e odio, andrà avanti per secoli e secoli. Perché in fondo piace a tutti.

Questo e altri articoli sul numero 414 di Progresso Sociale, il periodico dei Sindacati Indipendenti Ticinesi distribuito gratuitamente ai suoi soci.

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