La vecchiaia: da decadenza a fioritura

E già mi veggo vicino il tempo amaro e lugubre della vecchiezza; vero e manifesto male, anzi cumulo di mali e di miserie gravissime; e questo tuttavia non accidentale, ma destinato da te per legge a tutti i generi de’ viventi, preveduto da ciascuno di noi fino nella fanciullezza […]: in modo che appena un terzo della vita degli uomini è assegnato al fiorire, pochi istanti alla maturità e perfezione, tutto il rimanente allo scadere, e agl’incomodi che ne seguono.
G. Leopardi, Dialogo della Natura con un Islandese (1824)

E in questi termini che Giacomo Leopardi, nel1824, parla della vecchiezza, in uno dei suoi più celebri scritti filosofici rappresentato dal Dialogo della Natura con un Islandese, raccolto nelle Operette morali. Certo, una visione molto negativa dell’anzianità, vista come vera e propria beffa che Natura, entità creatrice di tutte le cose mortali, destina ad ogni essere vivente. Un destino dal quale l’uomo non ha possibilità di fuggire, e che deve accettare senza poter porne alcun rimedio. 

La riflessione leopardiana si colloca in un contesto decisamente pessimista, in cui un Islandese, in fuga dalle miserie e dalle avversità che Natura gli riserva, se la ritrova davanti e ha possibilità di parlarci e chiedere le ragioni di questa inevitabile disgrazia. Natura, che del dolore e delle sfortune dell’uomo e di ogni creatura non si sente in alcun modo responsabile, giustifica l’infelice condizione dei viventi in virtù del perpetuo circuito di produzione e distruzione che permette la conservazione del mondo. Ed è già un tema classico, che ritroviamo sin dalla letteratura della Grecia antica, che Leopardi riprende ed elabora nuovamente. 

Come spesso accade, le riflessioni leopardiane non si esauriscono in loro stesse, ma anzi provocano in chi le legge la necessità di metterle in discussione, alla ricerca di una via d’uscita, di una soluzione diversa, che, pur accettandone le radici esistenzialmente ed essenzialmente pessimiste, possa essere più luminosa e meno oscura. Infatti, la soluzione, come sempre accade nei testi di menti geniali, sta già nella tesi elaborata da Leopardi. Essa, tuttavia, non è mai detta “ad alta voce”, ma nascosta abilmente tra le righe, e sta alla nostra mente il compito di svelarla e renderla esplicita. Da quando abbiamo coscienza di noi stessi, come dice bene Leopardi, sappiamo che prima o poi inizieremo a sfiorire, a decadere, a perdere quella vivacità e quella freschezza che caratterizza le prime fasi della nostra vita. Ma non bisogna commettere l’errore di chi, consapevole del proprio destino, si lasci vincere da questo, e perda le speranze. È proprio l’essere coscienti “in anticipo” di questa nostra condizione la chiave per trovare la via d’uscita.

Ruota tutto attorno al concetto di “accettazione” del proprio destino. Che non significa – bisogna sottolinearlo in modo deciso – “rassegnazione”. Accettare il proprio destino significa riuscire a cogliere in ogni fase della nostra esistenza il suo significato più profondo. Nell’immobilità, la vita non c’è. La vita è divenire. Ciò che è immobile non progredisce, non evolve, rimane fisso, così com’è, nell’eternità. Come uomini, abbiamo la fortuna di poter attraversare diverse età e per questo “vivere” più volte. Oggi non sono quello che ero ieri e domani non sarò quello che sono oggi. Quale migliore definizione di vita, che non questa? Ed ecco che, magicamente, l’anzianità si trasforma da sfortuna predestinata a fortuna conquistata, da disgrazia a benedizione, da tragedia a sollievo, da debolezza a forza. Vero, siamo pur sempre fatti di carne ed ossa, quindi, a livello fisico, si presenteranno più fastidi e più problemi. Ma non siamo fatti solo di carne ed ossa. Siamo esseri umani, dotati di intelletto, ed esso, avendo attraversato tutte le fasi della vita, si trova con l’anzianità nella sua completa maturità, custode delle esperienze di una vita intera, pronto a rispondere con facilità alle domande più difficili ed essere d’esempio per chi, più giovane, tutte le fasi della vita ancora non ha attraversato.

La nostra più grande fortuna, come esseri umani, è dunque quella di fare esperienza del divenire. Chissà quanti di noi hanno sognato almeno una volta di vivere in eterno, di sfuggire al circuito della vita, vedere in modo distaccato il flusso delle cose, dall’alto, senza esserne immersi e coinvolti. Il problema, e la soluzione, è che vivere in eterno significherebbe non vivere del tutto. La vita ha un senso proprio perché finisce. Se accetto la morte, comincio in quello stesso momento a vivere pienamente. Natura diventa in questo modo amica, e non più nemica. Tutto ciò che occorre è accettarla. E la vecchiaia, in questi termini, altro non è che un’ulteriore “vita” che abbiamo la fortuna di poter attraversare, sentire ed assaporare.

E a voce bassa, sorridendo, mormora: – “E apertamente dedicai il cuore alla terra grave e sofferente. E promisi di amarla con fedeltà, fino alla morte, senza paura, col suo greve carico di fatalità, e di non spregiare alcuno dei suoi enigmi; così m’avvinsi ad essa di un vincolo mortale.” 
Citazione tratta da Hölderlin, La morte di Empedocle (1800) in F. Fellini, Il viaggio di G. Mastorna (1992).

Questo e altri articoli sul numero 416 di Progresso Sociale, il periodico dei Sindacati Indipendenti Ticinesi distribuito gratuitamente ai suoi soci.

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